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Vecchia attrezzatura oer la discesa dei pozzi

L'ambiente: inquadramento storico

Pino Guidi

Nelle pagine seguenti è stata ricostruita, per quanto possibile, la storia dei primi anni di vita della Scuola Nazionale di Speleologia del CAI. Per una equanime valutazione dei fatti è necessario, però, fornire alcuni dati sul modo e sui tempi in cui si svolsero. Verso la seconda metà degli anni '50 del secolo XX l'Italia stava finalmente chiudendo le ferite sociali, culturali ed economiche prodotte dalla seconda guerra mondiale ed avviandosi a quella ripresa economica che sarebbe esplosa alla grande il decennio successivo. In quest'Italia la speleologia stava riprendendo fiato e ristrutturandosi, soprattutto (anche se non solo) al Centro Nord. Nel 1954 mentre risultavano attivi 49 gruppi grotte (contro i 58 del 1933)1, riprendeva l'organizzazione dei Congressi Nazionali – unica reale occasione d'incontro degli speleologi italiani – e la stampa dei loro "atti"; la rivista Rassegna Speleologica Italiana (dovuta all'iniziativa ed ai soldi di Salvatore Dell'Oca, uno speleologo-mecenate lombardo) veniva affiancata dalla terza serie delle "Grotte d'Italia", finanziata dal rinato Istituto Italiano di Speleologia. Era tutto un fervore di iniziative, fra le quali è entrata di prepotenza la creazione della Scuola di Speleologia del CAI.

Le tecniche esplorative ed i materiali erano ancora fermi agli anni dell'anteguerra: scale con cavi d'acciaio di 5 – 6 mm (qualche gruppo usava anche scalette con cavi da 8 mm) e gradini in legno; un miglioramento si ebbe verso la fine degli anni '50 con la costruzione di scale con cavi da 5 mm e gradini in alluminio fissati o da legature con filo di ferro o da morsetti (interni al gradino). Negli anni '60 si diffusero sempre più le scale con cavetti in acciaio Aerfer da mm 3,17 (e in qualche caso con diametri ancora minori); è di questo periodo l'adozione del discensore per l'avanzamento e del bloccante per risalire in autosicura.
Per la sicura sui pozzi venivano usate corde di manila da 18 – 22 mm di diametro (scorticavano le mani, ma non venivano deteriorate dall'acqua) o di canapa di diametro leggermente inferiore. Sulla testa si mettevano elmetti militari (residuati di guerra, allora disponibili per poche lire), anche se cominciavano a circolare caschi da motociclista e i primi caschi di plastica da cantiere edile. L'illuminazione era fornita dalle lampade a carburo, portate a mano o – sui pozzi – appese alla cintura; gli speleo dotati di più iniziativa avevano fissato sull'elmo un fanale di bicicletta. L'abbigliamento era costituito da tuta da meccanico (era sconsigliata quella a due pezzi!), anche se si notavano sempre di più le tute mimetiche militari; nelle grotte con acqua ci si difendeva indossando, sotto la tuta e sopra i mutandoni e i maglioni di lana, brache e casacche di gomma.
Sul mercato la speleologia era assente: moschettoni e chiodi provenivano dall'ambiente alpinistico, il "cinturone di sicurezza" era quello in dotazione ai Vigili del Fuoco o all'ex UNPA2, le scale erano autocostruite, le corde comperate dai fornitori di materiale edilizio o marinaro3.

E' chiaro che con queste attrezzature anche le grotte esplorate avevano i loro limiti: nel 1954 in Italia c'erano soltanto 27 grotte profonde più di 200 metri; di queste solo due superavano i 500 (la Preta con 594 – però non reali4, ed il Corchia con 541), sette avevano fra i 302 e i 457 metri di profondità. Le rimanenti 18 andavano dai 200 metri della Grotta presso il Cimitero di Basovizza ai 264 della Grotta dei Morti; sette di queste erano ubicate sul Carso triestino5. E' dunque in questo contesto che vanno visti e inquadrati – soprattutto per la parte relativa alle esercitazioni pratiche – i Corsi della Scuola Nazionale: alla fine degli anni '50 scendere in una grotta profonda oltre 200 metri costituiva ancora un'avventura, se non proprio un'impresa.

Estratto dal libro "50 anni di speleologia della Scuola Nazionale di Speleologia CAI 1958 - 2008"
a cura di Pino Guidi, Francesco Salvatori e Totò Sammataro